A seguito della conferenza “Terra Santa: la pace è ancora possibile? Una sfida per l’Europa” che ha visto l’interesse di molti dei nostri studenti e studentesse si propone un’intervista del professor Giovanni Bernardini relatore dell’incontro e docente di Storia Contemporanea del Dipartimento Culture e Civiltà dell’Università di Verona.
In occasione dell’incontro pubblico dello scorso 2 maggio dedicato alle questioni che stanno attraversando Israele e Palestina il suo contributo ha dato una lettura storica degli accadimenti. Quanto, in questo momento, e perché la storia può diventare utile per comprendere la complessità che ci sta attraversando?
Quando si affronta lo studio della storia, indipendentemente dal periodo, dai processi e dagli eventi che si approfondiscono, ci si rende conto ben presto che non esistono correlazioni univoche e automatiche. Detto in altri termini: nella storia umana non è possibile identificare delle relazioni causa-effetto come si farebbe studiando la chimica o la fisica. Anche per questo la storia è sempre stata considerata (almeno fino a tempi recenti) un pilastro nell’istruzione superiore, a cominciare dalle classi dirigenti: essa è una palestra che prepara e abitua alle complessità del reale allontanando la tentazione di spiegazioni semplici e inevitabilmente errate. Il mondo in cui viviamo è immerso in fenomeni di ampia portata, nello spazio come nel tempo: non soltanto atroci conflitti che affondano le loro radici nel passato, ma anche i mutamenti climatici che stanno già trasformando il pianeta, un’economia scossa da crisi sempre più ravvicinate, una crescente e non sempre rassicurante mediatizzazione delle nostre vite quotidiane… Studiare questi eventi in prospettiva storica aiuta a conferire loro profondità, a comprendere in che modo essi sono arrivati ai nostri giorni, a sviscerarne le concause e le prospettive, e possibilmente ad affrontarli con la dovuta preparazione e senza la pretesa di risolverli con pochi semplici accorgimenti. Il caso del conflitto israelo-palestinese è un esempio lampante: sebbene le possibili soluzioni debbano forzatamente guardare al futuro piuttosto che al passato, sarebbe impossibile arrivare alla loro elaborazione senza tenere nel giusto conto la sequenza di eventi e processi che, lungo più di un secolo, ci hanno portato alla drammatica situazione attuale.
Storia e pace parole di cui si parla molto in questi mesi. Come possono diventare l’una appoggio dell’altra nella costruzione di processi di negoziazione?
Come dicevo, la storia è anche uno strumento al servizio del governo e della politica, a patto che questi sappiano servirsene. In tal senso, da sempre essa è utile tanto a chi muove guerra quanto a chi promuove la pace. Quanto a quest’ultima, una pace solida e durevole è sempre l’approdo di un processo che le parti direttamente e indirettamente in causa, devono costruire con grande attenzione al presente e al futuro, al fine di identificare misure e strumenti atti allo scopo, ma anche alla storia dei conflitti stessi. Il nostro passato recente e lontano è costellato di tentativi di pace falliti anche per la scarsa considerazione data alle ragioni delle parti considerate in prospettiva storica. In tal senso, quindi, lo studio della storia è utile a chi promuove fattivamente le ragioni della pace in due modi. Innanzitutto, perché ogni conflitto è caratterizzato da dinamiche del tutto proprie, che si sono costruite nel tempo e che non possono essere ignorate: in caso contrario, se mi si passa la metafora, sarebbe come se un artificiere tentasse di disinnescare una bomba senza conoscere il modo in cui è stata costruita. In secondo luogo, informazioni e intuizioni utili possono emergere da uno studio comparato: l’analisi di processi che hanno delle similitudini e che sono giunti a conclusioni positive o negative possono fornire elementi di riflessione di grande utilità. Questo, però, senza arrivare all’assurda pretesa di applicare pedissequamente a un conflitto le stesse soluzioni esperite in un altro: sarebbe semplicemente una ricetta per il fallimento, giacché (come anticipavo) ogni conflitto vive di dinamiche proprie e irripetibili. Anche su questo, purtroppo, la storia recente è stata prodiga di esempi negativi.
La storia non è solo studio dell’antico ma sempre più strumento importante per comprendere il presente, presente che pare essere spesso distorto. Storia e informazione. Storia come antidoto alla velocità dell’informazione e alla ricostruzione semplicistica di quanto accade?
Oggi, sorprendentemente, la storia sta vivendo un periodo di revival dopo anni di appannamento, in cui non poche voci avevano profetizzato la “fine della storia”. Per quanto sia triste ammettere che sono le eruzioni di nuovi conflitti (nel nostro caso, l’aggressione russa all’Ucraina e poi il rinnovato conflitto in Palestina) a ridestare periodicamente l’interesse per la storia, c’è almeno da sperare che questo contribuisca a incrementare la voglia del grande pubblico di approfondire, di non arrestarsi alle analisi in pochi caratteri di dinamiche talvolta secolari. D’altronde, è anche tempo che la categoria degli storici e delle storiche di professione esercitino un’autocritica nei confronti della loro tradizionale diffidenza nei confronti dei mezzi di comunicazione di massa e nel loro uso per offrire i frutti del loro lavoro anche a un pubblico non specialistico. Questo ha portato troppo spesso a lasciare che la ricostruzione di eventi e processi fosse presa in carico da individui anche animati da buone intenzioni, ma spesso privi della preparazione metodologica e professionale necessaria. Per troppo tempo il termine “divulgazione” ha ricevuto una connotazione negativa dagli storici in Italia: fortunatamente gli anni più recenti sembrano testimoniare un’inversione di tendenza significativa, soprattutto da parte delle ultime generazioni. La necessità di compenetrare la chiarezza e la semplicità delle forme del linguaggio al rigore e alla serietà delle ricostruzioni e delle interpretazioni è un imperativo civile al quale gli storici e le storiche non possono più sottrarsi, pena il duplice rischio che la loro professione sia percepita come irrilevante dalla cittadinanza e che la materia stessa del loro lavoro diventi infine il pane quotidiano di altri meno professionalmente preparati.